L'emergenza legata al coronavirus terminerà, ma dopo? L’elogio dello smart working e la metafora della pozzanghera.
Emergenza, per definizione, è un momento critico che richiede l’adozione di misure non ordinarie al fine di essere fronteggiata. Come momento, appunto, è temporaneo, quindi passerà. Dopo un acquazzone il terreno non è in grado di assorbire tutta l’acqua piovana, lo farà ma non nell’immediato, ed è per questo che si formano delle pozzanghere. Se il giorno dopo l’acquazzone ci sarà il sole, comunque i segni del temporale saranno visibili nel terreno. Pozzanghera, dunque, come sinonimo di ferita ma a differenza di quest’ultima, portatrice di un effetto benevolo, in quanto l’acqua in essa contenuta irrigherà il terreno sul quale giace.
In questo articolo voglio commentare, dal mio osservatorio, l’organizzazione delle aziende italiane, dunque la “pozzanghera” economica. Ovviamente non posso generalizzare perchè, per fortuna, di esempi virtuosi il nostro Paese ne è pieno, d’altronde se non fosse cosi dubito saremmo la terza economia più grande d’Europa. Solo a Cesena, dove risiedo, ricordo la donazione di 800 mila euro che un’azienda leader mondiale di prodotti surgelati ha effettuato nei confronti del nosocomio cittadino, l’Ospedale “Bufalini”. Però l’Italia non è fatta soltanto di aziende virtuose, grandi e poche, ma anche di una miriade di aziende medio grandi non virtuose e retrograde. Di base tali aziende, dunque le non virtuose, hanno un’organizzazione del lavoro ferma agli anni ’70. In quegli anni, come tutti sappiamo, non c’era internet, non c’erano i PC, e non c’erano nemmeno gli smartphone e i tablet. In quegli anni dunque si lavorava con carta e penna.
Siccome da ormai sette anni mi occupo di controllo di gestione e project management, mi sia consentito di portare come esempio il ruolo del contabile il quale faceva i conti a mano e le scritture contabili, per l’appunto, venivano “scritte” a penna nei libri (cartacei). Il contabile era chi contava, e non era facile. Non c’era Excel, al limite c’erano delle calcolatrici, ma fidatevi, richiede tantissima concentrazione in un ambito dove il margine d’errore dev’essere minimo. Chiaramente non si tratta tanto di salvare vite umane, quanto di spiegare alla GdF eventuali errori nelle scritture. Evidentemente anche la riconciliazione delle fatture e di qualsiasi altro documento avveniva a mano, e per forza di cose bisognava lavorare in ufficio. Vi immaginate un contabile negli anni ’70 a portarsi quella mole di carta a casa? Impensabile. Allora come veniva valutato l’impiegato? Di fatto in base a quattro considerazioni (almeno queste sono quelle che mi vengono in mente, potrebbero essercene di più).
Queste metodi di giudizio potrebbero essere: 1) quantità di lavoro prestata dall’impiegato in termini di ore passate in ufficio. D’altronde non c’era altro modo per misurarne l’efficienza; 2) quanti errori faceva nello svolgimento delle proprie mansioni; 3) quanto era incline a baciare la statua del Mega Presidente Galattico (cit. Fantozzi) all’ingresso in azienda; 4) non lo so, sono nato a fine anni ’80 e cresciuto con Dawson’s creek, gli 883 e Windows 95. Cos’è successo nel frattempo? Nel frattempo, nel mondo che prospera al di fuori dei cancelli delle aziende retrograde, si è diffuso internet. Si sono diffusi i PC, gli smartphone, i tablet, Excel e il pacchetto Office, le e-mail, Skype, e tantissime altre tool di collaborazione.
Una scrittura contabile che prima richiedeva tantissimo tempo per essere ragionata, valutata e fatta, ora richiede circa 3 secondi. Infatti, scrivi su un file Excel il numero, selezioni un paio di caselle, fai un click sul pulsante di una macro, e come per “magia” la scrittura è “postata” nei sistemi. Dimenticavo, nel frattempo il mondo si è dotato di sistemi ERP (del tipo Zucchetti, Oracle, Sap, Microsoft Navision, BaaN e migliaia di altri). Cosa significa ciò? Che la quantità di lavoro prestata dall’impiegato non è più l’unico modo per misurarne l’efficienza, in quanto il responsabile può estrarre dei report e valutare la qualità e la quantità del lavoro fornito.
Tutto ciò significa che dunque è possibile prestare il proprio lavoro da remoto, quello che in Italia si chiama smart working, lavoro agile o telelavoro, e nel resto del mondo home office o semplicemente attraverso la locuzione working from home. Smart significa intelligente, lavorare da casa non è intelligente, è semplicemente logico, soprattutto quando necessario.
Perchè alcuni datori di lavoro, non consentono ai propri dipendenti di usufruire di tale vantaggio offerto dai tempi e dalla tecnologia, soprattutto in una situazione in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia per via del COVID-19 (Coronavirus Deasease 2019)? Perchè, probabilmente ciò ha portato allo scoperto almeno due punti dolorosi da affrontare. Il primo riguarda il senso di onnipotenza e di mania del controllo da parte del capo. Il datore di lavoro retrogrado, ritiene ancora che se sei in ufficio e timbri, sei di sua proprietà. E questo è ciò che conta. Il secondo riguarda la misurazione delle performance. Per misurare la performance dell’impiegato o dipendente, o come si dice in questa Italia finta perbenista, collaboratore, è necessario che il “controllore” sappia controllare. Ma se il “controllore” non sa usare la tecnologia, allora l’unico modo per mascherare la propria inadeguatezza è farti lavorare dall’ufficio, dove nella sicurezza della timbratura qualsiasi ombra viene mitigata dalla luce dello pseudo controllo. Tutto questo va bene, lo accetto. Italia Paese retrogrado ma alla fin fine il sistema va avanti e rimaniamo la terza potenza economica europea con il secondo sistema sanitario migliore al mondo (il primo è quello canadese).
Potremmo trarre qualche lezione nel momento in cui l’emergenza sarà cessata? Si, e saranno almeno due. La prima sarà quella che ci suggerirà che le aziende vanno svecchiate da quel management che non consente ai CEO sprovveduti (non per intelligenza ma per cultura e visione) di capire ed interpretare la realtà. Il management dev’essere giovane e dinamico, capire come usare le tecnologie ed in grado di valutare la performance dei propri collaboratori anche a distanza. La seconda, che il sistema patronale delle aziende italiane funziona benissimo soltanto se non vi sono crisi od emergenze in atto, ma si comporta come un castello di carte che può crollare al primo starnuto, in caso di eventi esogeni proveniente dai mercati.
Lo smart working, almeno in momenti di emergenza, consente alle aziende di operare anche nei momenti di crisi senza interrompere le proprie operations. In alternativa, chiudi i battenti almeno per quindici giorni. Cosi come la “pozzanghera” è sporca e fangosa, ma è il “prezzo da pagare” dopo la pioggia, benefica perchè irriga i campi i quali prosperano e ci danno cibo, cosi la fiducia verso i tuoi dipendenti, o collaboratori, è il prezzo da pagare se decidi che da una bottega di generi alimentari, vuoi essere leader mondiali della pasta con la ‘nduja (per chi non lo avesse intuito sono calabrese). L’elogio dello smart working non è elogio del lavorare comodi da casa, è amore per il mio Paese che non voglio si fermi per via dell’ignoranza.
In questo articolo voglio commentare, dal mio osservatorio, l’organizzazione delle aziende italiane, dunque la “pozzanghera” economica. Ovviamente non posso generalizzare perchè, per fortuna, di esempi virtuosi il nostro Paese ne è pieno, d’altronde se non fosse cosi dubito saremmo la terza economia più grande d’Europa. Solo a Cesena, dove risiedo, ricordo la donazione di 800 mila euro che un’azienda leader mondiale di prodotti surgelati ha effettuato nei confronti del nosocomio cittadino, l’Ospedale “Bufalini”. Però l’Italia non è fatta soltanto di aziende virtuose, grandi e poche, ma anche di una miriade di aziende medio grandi non virtuose e retrograde. Di base tali aziende, dunque le non virtuose, hanno un’organizzazione del lavoro ferma agli anni ’70. In quegli anni, come tutti sappiamo, non c’era internet, non c’erano i PC, e non c’erano nemmeno gli smartphone e i tablet. In quegli anni dunque si lavorava con carta e penna.
Siccome da ormai sette anni mi occupo di controllo di gestione e project management, mi sia consentito di portare come esempio il ruolo del contabile il quale faceva i conti a mano e le scritture contabili, per l’appunto, venivano “scritte” a penna nei libri (cartacei). Il contabile era chi contava, e non era facile. Non c’era Excel, al limite c’erano delle calcolatrici, ma fidatevi, richiede tantissima concentrazione in un ambito dove il margine d’errore dev’essere minimo. Chiaramente non si tratta tanto di salvare vite umane, quanto di spiegare alla GdF eventuali errori nelle scritture. Evidentemente anche la riconciliazione delle fatture e di qualsiasi altro documento avveniva a mano, e per forza di cose bisognava lavorare in ufficio. Vi immaginate un contabile negli anni ’70 a portarsi quella mole di carta a casa? Impensabile. Allora come veniva valutato l’impiegato? Di fatto in base a quattro considerazioni (almeno queste sono quelle che mi vengono in mente, potrebbero essercene di più).
Queste metodi di giudizio potrebbero essere: 1) quantità di lavoro prestata dall’impiegato in termini di ore passate in ufficio. D’altronde non c’era altro modo per misurarne l’efficienza; 2) quanti errori faceva nello svolgimento delle proprie mansioni; 3) quanto era incline a baciare la statua del Mega Presidente Galattico (cit. Fantozzi) all’ingresso in azienda; 4) non lo so, sono nato a fine anni ’80 e cresciuto con Dawson’s creek, gli 883 e Windows 95. Cos’è successo nel frattempo? Nel frattempo, nel mondo che prospera al di fuori dei cancelli delle aziende retrograde, si è diffuso internet. Si sono diffusi i PC, gli smartphone, i tablet, Excel e il pacchetto Office, le e-mail, Skype, e tantissime altre tool di collaborazione.
Una scrittura contabile che prima richiedeva tantissimo tempo per essere ragionata, valutata e fatta, ora richiede circa 3 secondi. Infatti, scrivi su un file Excel il numero, selezioni un paio di caselle, fai un click sul pulsante di una macro, e come per “magia” la scrittura è “postata” nei sistemi. Dimenticavo, nel frattempo il mondo si è dotato di sistemi ERP (del tipo Zucchetti, Oracle, Sap, Microsoft Navision, BaaN e migliaia di altri). Cosa significa ciò? Che la quantità di lavoro prestata dall’impiegato non è più l’unico modo per misurarne l’efficienza, in quanto il responsabile può estrarre dei report e valutare la qualità e la quantità del lavoro fornito.
Tutto ciò significa che dunque è possibile prestare il proprio lavoro da remoto, quello che in Italia si chiama smart working, lavoro agile o telelavoro, e nel resto del mondo home office o semplicemente attraverso la locuzione working from home. Smart significa intelligente, lavorare da casa non è intelligente, è semplicemente logico, soprattutto quando necessario.
Perchè alcuni datori di lavoro, non consentono ai propri dipendenti di usufruire di tale vantaggio offerto dai tempi e dalla tecnologia, soprattutto in una situazione in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia per via del COVID-19 (Coronavirus Deasease 2019)? Perchè, probabilmente ciò ha portato allo scoperto almeno due punti dolorosi da affrontare. Il primo riguarda il senso di onnipotenza e di mania del controllo da parte del capo. Il datore di lavoro retrogrado, ritiene ancora che se sei in ufficio e timbri, sei di sua proprietà. E questo è ciò che conta. Il secondo riguarda la misurazione delle performance. Per misurare la performance dell’impiegato o dipendente, o come si dice in questa Italia finta perbenista, collaboratore, è necessario che il “controllore” sappia controllare. Ma se il “controllore” non sa usare la tecnologia, allora l’unico modo per mascherare la propria inadeguatezza è farti lavorare dall’ufficio, dove nella sicurezza della timbratura qualsiasi ombra viene mitigata dalla luce dello pseudo controllo. Tutto questo va bene, lo accetto. Italia Paese retrogrado ma alla fin fine il sistema va avanti e rimaniamo la terza potenza economica europea con il secondo sistema sanitario migliore al mondo (il primo è quello canadese).
Potremmo trarre qualche lezione nel momento in cui l’emergenza sarà cessata? Si, e saranno almeno due. La prima sarà quella che ci suggerirà che le aziende vanno svecchiate da quel management che non consente ai CEO sprovveduti (non per intelligenza ma per cultura e visione) di capire ed interpretare la realtà. Il management dev’essere giovane e dinamico, capire come usare le tecnologie ed in grado di valutare la performance dei propri collaboratori anche a distanza. La seconda, che il sistema patronale delle aziende italiane funziona benissimo soltanto se non vi sono crisi od emergenze in atto, ma si comporta come un castello di carte che può crollare al primo starnuto, in caso di eventi esogeni proveniente dai mercati.
Lo smart working, almeno in momenti di emergenza, consente alle aziende di operare anche nei momenti di crisi senza interrompere le proprie operations. In alternativa, chiudi i battenti almeno per quindici giorni. Cosi come la “pozzanghera” è sporca e fangosa, ma è il “prezzo da pagare” dopo la pioggia, benefica perchè irriga i campi i quali prosperano e ci danno cibo, cosi la fiducia verso i tuoi dipendenti, o collaboratori, è il prezzo da pagare se decidi che da una bottega di generi alimentari, vuoi essere leader mondiali della pasta con la ‘nduja (per chi non lo avesse intuito sono calabrese). L’elogio dello smart working non è elogio del lavorare comodi da casa, è amore per il mio Paese che non voglio si fermi per via dell’ignoranza.
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