Il Reddito di Cittadinanza è uno strumento di civiltà. Seppur imperfetto, vi sono dei modi per rinvigorirlo e migliorarlo

Giuseppe Sorace.    

Mal concepito ed applicato, rappresenta comunque un passo avanti per il Paese. I Centri per l’Impiego (Cpi) e la figura del Navigator, ossia coloro che avrebbero dovuto aiutare le persone a trovare un lavoro, sono i due pilastri da cui avviare una riforma.  Da settembre 2023 addio al RdC: ci sono infatti il Reddito di Inclusione e il Supporto per la formazione e il lavoro


Il Reddito di Cittadinanza, tanto dibattuto e alla fine praticamente cancellato dal governo Meloni, era ed è una misura che serve a dare dignità alle persone, è un gesto di civiltà. Lo scopo, infatti, è quello di sostenere le politiche attive del lavoro e supportare tutti coloro che non hanno altri mezzi di sostentamento, al di là delle motivazioni di fondo.

L’articolo 4 della Costituzione stabilisce che: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro» e ancora «ogni cittadino ha il diritto di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Pertanto, al fine di consentire a ciascuno di concorrere al progresso della società è necessario svolgere una funzione o un’attività e non rimanere in una condizione di non occupazione; potremmo osare a interpretare il dettato costituzionale in maniera amplia e ricavarne implicitamente una disposizione che sancisca per tutte le situazioni contrarie a quanto disposto un carattere di temporaneità. Dunque, l’assegno mensile del RdC dev’essere provvisorio poiché le persone dovrebbero trovare un lavoro ed essere libere da sussidi statali. Seppur da un lato difendo il Reddito di Cittadinanza, perché soprattutto al Sud ha dato respiro e dignità a tanti, ed auspico che verrà reintrodotto in quanto strumento di civiltà, dall’altro non posso che non registrare il fatto che di fatto oltre all’erogazione dell’assegno non sia stato pensato altro. Infatti, sia i Navigator che i Centri per l’Impiego si sono rivelati inutili e dispendiosi.

Una proposta di riforma

È opinione comune che il lavoro in Italia non si trovi perché gli imprenditori di turno, di tanto in tanto intervistati dalle TV, si lascino andare ad affermazioni bizzarre del tipo: «cerchiamo tantissimi operai ma non ne troviamo di qualificati», frase che negli anni del RdC si è arricchita di un'altra affermazione standardizzata quale «la gente preferisce rimanere sul divano che venire a lavorare».

La prima affermazione dei nostri fantomatici imprenditori si basa su due convinzioni: innanzitutto che soltanto loro possono svolgere lavori di “concetto” mentre tutti gli altri necessariamente devono essere degli operai, (quasi mai vengono contemplati i ruoli impiegatizi); in secondo luogo che se non si trova lavoro è perché non si è qualificati. Per cui, mandiamo in fumo secoli di tradizione artistica italiana nata nelle botteghe, dove gli apprendisti entravano che non sapevano tenere uno scalpello o un pennello in mano e ne uscivano artisti, perché ora bisogna studiare da operai. Ora non so esattamente a cosa si riferiscano, dato che in Italia esistono si gli Istituti Tecnici ma non le scuole per diventare operai. Sarebbe opportuno chiedere del perché non siano loro ad attivare delle scuole di formazione specifiche, così come ha fatto un noto imprenditore umbro simbolo del Made in Italy nel mondo.

Ma la seconda affermazione, invece, ossia che si preferisca stare sul divano che andare a lavorare è quella che mi ha sempre affascinato di più. Analizziamo dunque qualche dato, disponibile dagli archivi INPS e leggendo i report relativi ai nuclei percettori di Reddito di Cittadinanza nei mesi di Luglio 2023 (praticamente l’ultimo anno in cui è stato pienamente in vigore) e di Novembre 2022 (periodo in cui funzionava a pieno regime).

A Luglio 2023, la Regione italiana dove in media si è percepito di più come assegno mensile di RdC è stata la Campania con € 661,88 (a Novembre 2022 € 644,30). Il che significa che se davvero qualcuno ha preferito rimanere sul divano anziché andare a lavorare ha fatto bene. E lo ha fatto in ordine a due considerazioni. La prima, il nostro imprenditore forniva uno stipendio pari o poco superiore al RdC, al quale togliendo i costi per recarsi a lavoro ed altre spese, sostanzialmente pareggiava il RdC. La seconda considerazione è che non veniva garantito un contratto regolare, magari a tempo indeterminato, generando così ancora più incertezza e portando il percettore di RdC ad optare naturalmente per l’opzione più sicura.

Tuttavia, sfido chiunque a dimostrare con i fatti che qualcuno abbia rifiutato un lavoro a 1.200 € mensili per 600 € di RdC. Pertanto, l’accontentarsi di 600 € al mese di Reddito è sinonimo di svogliatezza e “vagabondaggine” o di ribellione ad una moderna forma di schiavitù che coinvolge sempre più categorie di lavoratori sottopagati e sfruttati? Questa è la domanda che chiunque si senta legittimamente di criticare il RdC dovrebbe per lo meno porsi come forma di autoriflessione. Altrimenti non sono che chiacchiere da bar. A questo punto, dunque, emerge un problema ormai strutturale del mercato del lavoro in Italia ossia che gli stipendi non sono competitivi e il loro potere di acquisto è eroso dall’inflazione. Questo è il problema, non il Reddito di Cittadinanza.

Ma le colpe non sono soltanto degli imprenditori. Ma del Governo Conte che ha previsto l’utilizzo dei Centri per l’Impiego e dei Navigator, persone a loro volta precari e spesso con poca esperienza, che avrebbero dovuto guidare i percettori di RdC a trovare un lavoro, cosa che non è praticamente mai successa se non in maniera del tutto marginale.

Per quanto riguarda i Centri per l’Impiego la situazione, come molti italiani conoscono bene, è drammatica. Partendo dall’esperienza dell’utente, nel momento in cui si entra in un Centro per l’Impiego nella maggior parte dei casi si entra in edifici fatiscenti, tendenzialmente con barriere architettoniche che non consentono ad un disabile di fruire di un suo diritto in autonomia, e composto da impiegati che avrebbero bisogno di corsi di formazione e di aggiornamento, in questo contesto, cosa avrebbe potuto fare un Navigator? Nulla, assolutamente nulla. Pertanto, la prima proposta che mi sento di avanzare riguarda la riforma dei Centri per l’Impiego attraverso investimenti pluriennali con un alto ROI, per usare termini aziendalisti, ossia ritorno dell’investimento. Questi si dovrebbero concentrare su quattro pilastri: 1) nuovi strumenti informatici e creazione di una piattaforma unica integrata con i dipartimenti delle Risorse Umane delle aziende italiane; 2) un nuovo quadro normativo che colleghi imprese e Centri per l’Impiego; 3) investire nel capitale umano, sia per i già dipendenti dei Cpi che per i neoassunti; 4) riammodernamento e abbattimento delle barriere architettoniche degli edifici che ospitano i Cpi.

1. Strumenti informativi e creazione di un unico database a livello nazionale

È fondamentale creare una piattaforma che dialoghi in tempo reale con le imprese. Nel concreto, le Risorse Umane delle aziende italiane sarebbero in grado di inserire le offerte di lavoro su questa nuova piattaforma, e i Cpi individuare i candidati da presentare alle aziende, di cui si ha un profilo ben preciso e condiviso a livello nazionale. Dunque, un’unica piattaforma e un unico database. Questo significa investire nella digitalizzazione e nel futuro del mondo del lavoro. Ogni persona iscritta ai Cpi e in cerca di lavoro, pertanto, avrà un proprio profilo digitale e si bypasserà l’obsoleto strumento del CV formato europeo e cartaceo. Ogni utente nella compilazione del proprio profilo è assistito e guidato da un tutor, o Navigator.

2. Una legge che rafforzi l’efficacia dei Centri per l’Impiego

Partendo dal fatto che il lavoro lo crea l’imprenditore e che lo Stato, attraverso i Cpi, è segregato al ruolo di intermediario tra domanda e offerta di lavoro, appare dunque evidente che se non vi sono offerte di lavoro il ruolo dei Centri è limitato. Ciò accade perché le imprese italiane per la ricerca e selezione del personale hanno due strade: la prima e più ovvia è quella interna, ossia affidarsi ai rispettivi dipartimenti Risorse Umane; la seconda invece prevede il coinvolgimento di enti esterni quali le agenzie di selezione del personale. È proprio questa seconda scelta che ostacola il lavoro dei Cpi. Una legge che preveda l’obbligo per le aziende nella ricerca e selezione del personale almeno per operai e impiegati di rivolgersi esclusivamente ai Cpi, in maniera del tutto gratuita, quindi consentendo alle stesse di risparmiare costi, risolverebbe il problema dei Cpi di non aver lavoro da offrire a disoccupati e inoccupati.

3. Formazione

La riforma dei Cpi passa si dagli edifici, accessibili e accoglienti, da investimenti sull’infrastruttura informatica e dal sostegno di norme. Ma senza impiegati formati, capaci e brillanti, i tre elementi non sortiranno alcun effetto. Se i centri per l’impiego devono fare concorrenza alle società private di recruiting, allora sarà necessario che gli impiegati, Navigator o tutor, siano dei professionisti delle risorse umane. L’investimento che lo Stato deve effettuare in formazione deve partire proprio da coloro preposti ad aiutare le persone all’inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, finalizzato a far trovare un lavoro e ridare dignità alle persone che passa necessariamente da un lavoro onesto, sicuro e ben retribuito. 

4. Edifici e accessibilità

Sintetizzerei questa proposta citando un Amministratore Delegato di IBM, Watson Jr., e la sua celebre frase «Good design is good business» che in questo caso in italiano tradurrei come «un buon progetto per un buon business» e il business, in questo caso, dovrebbe essere quello di collegare efficacemente ed efficientemente chi cerca lavoro da chi lo offre, ossia le Imprese. Da tutta Italia e in tutta Italia. La dignità della persona passa anche dalla bellezza, dunque da edifici accoglienti e soprattutto accessibili. 

Alla luce di quanto scritto, una legge che attraverso meccanismi di incentivi e sanzioni renda per le aziende più conveniente ed agevole rivolgersi ai Cpi nella ricerca e selezione del personale e solo in ultima istanza alle agenzie di recruiting (selezione del personale), contribuirebbe alla realizzazione di quanto disposto dall’art. 4 della Costituzione e, al contempo, farebbe sì che il Reddito di Cittadinanza si trasformi dall’attuale strumento di assistenzialismo fine a se stesso a strumento di civiltà, dignità e ricchezza. Evidentemente però se da un lato le aziende per la ricerca di personale devono rivolgersi in prima istanza ai Cpi, dall’altro gli stessi devono garantire velocità ed affidabilità, che nel concreto si traduce nel fatto che entro cinque giorni lavorativi da quando l’azienda attraverso il portale (punto 1 della proposta) inserisce un annuncio di lavoro, il Cpi deve proporre un numero congruo di candidati, scelti a livello nazionale tra tutti gli iscritti alle “liste di collocamento” e che posseggono le caratteristiche e le competenza di cui l’azienda ha bisogno.

Il tempo è denaro per le aziende, ma è altrettanto vitale per chi un lavoro non ce l’ha. Ciò per evitare che il prolungato periodo di non occupazione abbia ripercussioni negative sulla psiche delle persone. Di inerzia si muore, se non fisicamente comunque mentalmente.

C’è bisogno della collaborazione di tutti, ma in questo caso più di tutti c’è bisogno di Stato che interpreti i bisogni reali e li soddisfi in tempi “reali” e non “burocratici”. Si parte proprio dallo sviluppo delle competenze, delle professionalità all’interno della Pubblica Amministrazione e, di nuovo, dalla velocità di risposta. Si parte dal rianimare e portare a nuova vita i Centri per l’Impiego.

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